CONSIDERAZIONI GENERALI
Il mito relativo al giudizio di Paride (κρίσις τών θεών ossia il «confronto» o «giudizio tra le dee») era assai noto nell’Antichità greco-romana e la sua menzione nelle fonti letterarie superstiti è frequente. La ragione è chiara: tra le conseguenze di quell’episodio, attraverso il rapimento di Elena, spiccava la guerra di Troia, durante la quale le dee sconfitte avrebbero continuato a esercitare il proprio odio contro la città. Alla figura del giovane erano collegati numerosi episodi mitologici, che ne descrivevano la sorte sin dagli anni precedenti la nascita; tale abbondante materiale mitico è conservato in opere diverse, spesso in una rielaborazione poetica che vi apportò varianti più o meno lievi: «la letteratura classica […] è una letteratura che, quando si propone di narrare storie, non è capace di concepire questa operazione se non nella forma di chi racconta un mito già noto […] le trame del mito c’erano, in un certo senso già tutte. Quello che occorreva fare era tenerle vive, scriverle e raccontarle ancora» (1).
PARIDE: NASCITA CHE GIÀ PRELUDE LA DISTRUZIONE DI TROIA
Ecuba, moglie di Priamo re di Troia, mentre era incinta di Paride, sognò di generare una fiaccola ardente invece di un neonato. In quel fondamentale compendio mitografico che è l’opera intitolata Biblioteca, a lungo attribuita ad Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), ma probabilmente compilata da altri verso la fine del I sec. d.C., si dà ampio risalto a questo particolare (cfr. Bibl. III 12, 5), ma esso era menzionato già nelle Troiane di Euripide (vv. 919ss., probabilmente derivato dal poema ciclico Kypria) e sappiamo che a Roma fu ripreso da Ennio (Alexander vv. 35-37), Virgilio (Aen. VII 321; X 702) e Ovidio (Her. XVI 46). Il mitografo latino Igino (Fab. 91) aggiunge che nel parto ardente parevano brulicare delle serpi:
[sc. Hecuba] :
«vidit se facem ardentem parere ex qua serpentes plurimos exisse»
Traduzione:
«Ecuba vide che partoriva una fiaccola ardente da cui uscivano numerosissime serpi».
Nel sogno di Ecuba, il fuoco da lei dato alla luce, estendendosi agli edifici, incendiava l’intera città di Troia. Che una visione profetica si accompagnasse al parto è una costante della tradizione; essa compare ancora, significativamente, in modo ampio, in una delle riscritture più tarde di quel mito: l’opera comunemente indicata come la Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese, un testo che si finge essere la traduzione latina di un originale greco antichissimo, ma che è in realtà una creazione tardo-antica:
[Dict. Cret. III 26]:
«Namque Hecubam foetu eo gravidam facem per quietem edidisse visam, cuius ignibus conflagravisse Idam ac mox continuante flamma deorum delubra concremari omnemque demum ad cineres conlapsam civitatem intactis inviolatisque Antenoris et Anchisae domibus».
Traduzione:
«E infatti a Ecuba, incinta di quel bambino, parve di aver dato alla luce, pur restando tranquilla, una fiaccola, le cui fiamme avevano incendiato il monte Ida; ben presto i templi degli dèi, per il perdurare del fuoco, venivano bruciati e l’intera città, infine, era ridotta in cenere, mentre erano rimaste intatte e senza danno le case di Antenore e Anchise».
La fiaccola viene qui collegata a quel monte Ida, su cui Paride avrebbe trascorso la giovinezza; il fuoco rade al suolo Troia ma non le case di Antenore e Anchise, cioè quelle dei due eroi destinati a scampare al disastro della città, riparando il primo a Padova, mentre il secondo, sopravvissuto all’incendio, morì di vecchiaia durante le peregrinazioni al seguito del figlio Enea, cui fu invece concesso di approdare sano e salvo sulle coste del Lazio.
Secondo la consuetudine degli antichi, dopo un simile sogno premonitore, Priamo interrogò subito un indovino, e precisamente il figlio Esaco, avuto prima di sposare Ecuba da Arispe figlia di Meropo. Esaco, illustrando la trasparente simbologia, consigliò ai genitori di disfarsi del fratellastro per non causare la rovina della patria. Non appena Paride nacque, Priamo lo fece allontanare da Troia: fece chiamare un bovaro di nome Agelao e gli consegnò il bambino, perché fosse abbandonato sul monte Ida. Euripide, per la verità, afferma che Cassandra insistette per uccidere il neonato (cfr. Eur. Androm. 297; 300) e tale sembra essere la versione conosciuta anche dal mitografo latino Igino che scrive [sc. Alexander] datur interficiendus [«Alessandro viene consegnato per essere ucciso», Hyg. Fab. 91).
Il Nome
Paride era anche conosciuto anche con l’appellativo di Alessandro. Ora, il greco Ἀλέξανδρος, di per sé, significa all’incirca «eroe difensore»; Apollodoro (III 12, 6) pensa a un soprannome guadagnato dal giovane quando, impegnato come custode di vacche, difese le proprie mandrie da alcuni razziatori. Igino sembra invece suggerire che Alessandro fosse il nome scelto da Priamo ed Ecuba cui, soltanto in un secondo momento, si sostituì l’appellativo di Paride. Se si considera che nell’Iliade di Omero, che contiene le attestazioni letterarie più antiche, il nome Alessandro (comunque adatto a un figlio di re) ricorre assai più frequentemente dell’altro, sarà forse possibile supporre che la versione conservata a noi da Igino rispecchi la variante originale.
BELLEZZA DI PARIDE
La caratteristica peculiare di Paride è la sua avvenenza: mentre cresceva sull’Ida Paride era divenuto bellissimo. Il dato si mantiene costante nel tempo e una significativa descrizione fisica si legge ancora nell’opera di Darete Frigio, ossia in quella singolare versione dei fatti relativi alla guerra di Troia risalente al tardo-antico, ma che pretende di derivare da un originale greco praticamente coevo al conflitto. Qui, tra l’altro, la responsabilità morale del conflitto spetta ai Greci, e non ai Troiani:
[Dar. Phryg. 12]:
«Dares Phrygius [...] ait [...] Alexandrum candidum longum fortem oculis pulcherrimis capillo molli et flavo ore venusto voce suavi velocem cupidum imperii».
Traduzione:
«Darete Frigio ... sostiene ... che Alessandro fosse bianco di incarnato, alto, coraggioso, con occhi bellissimi, chioma fluente e bionda, viso grazioso, voce soave, rapido, desideroso di potere».
GIUDIZIO DI PARIDE
Tutto ebbe inizio quando Peleo, re di Ftia in Tessaglia decise di sposare in seconde nozze la nereide Teti (da cui poi ebbe il figlio Achille). Il matrimonio, sontuoso, venne celebrato alla presenza di tutti gli Dei dell'Olimpo, con l'esclusione di Eris, dea della discordia.
Eris volle vendicarsi, ma non scelse una vendetta diretta. Si presentò infatti al banchetto e lasciò rotolare tra i presenti una delle mele d'oro del Giardino delle Esperidi, dichiarando che ne avrebbe fatto regalo alla Dea più bella presente alle nozze.
La mela, simbolo di seduzione e bellezza suprema venne contesa tra Era (moglie di Zeus e divinità legata alle messi e all'abbondanza), Atena (figlia di Zeus, dea delle arti, della sapienza e degli aspetti nobili legati alla guerra) ed Afrodite (dea dell'amore, della bellezza e della lussuria).
La lite tra le dee degenerò, ma Zeus si rifiutò di emettere un giudizio, lasciando il compito a Paride principe di Troia. Le dee, pur di ricevere la preziosa mela ed il significato a lei legato tentarono Paride in vari modi: Atena gli promise vittoria in tutte le guerre che avrebbe intrapreso; Era infiniti ed unici poteri; Afrodite l'amore di Elena, la donna più bella della terra. Chiamato quindi a giudicare quale tra Era, Atena e Afrodite fosse la dea più bella, Paride scelse la dea dell’amore e, con il verdetto pronunciato sul monte Ida, si inimicò per sempre la sposa di Zeus e Atena; cedette invece alle lusinghe di Afrodite che gli aveva concesso le grazie di Elena, figlia di Leda (o, secondo altre versioni, di Nemesi) e di Zeus il quale, per unirsi alla donna, si era trasformato in cigno: Elena era nata così da un uovo. Divenuta poi la donna più bella del mondo antico, sposò Menelao re di Sparta, scegliendolo tra numerosissimi pretendenti. L’adempimento della promessa di Afrodite a Paride, in seguito all'attribuzione della mela, assumeva dunque i caratteri di un adulterio. Il modo di portare con sé la donna, tuttavia, dovette essere individuato dal giovane affidandosi alla propria iniziativa: egli si ingegnò nella costruzione di una nave, realizzata per lui da un artigiano di nome Fereclo, e raggiunse Sparta, forse in compagnia di Enea, e qui andò ospite al palazzo reale. Riuscì quindi a sottrarre la moglie alla custodia di Menelao, approfittando dell’assenza dell’eroe, impegnato a Creta per partecipare ai funerali del nonno Catreo (Apollod. Bibl. Epit. 3). Lasciata Sparta, Paride si diresse quindi verso Troia e il viaggio di ritorno è narrato in innumerevoli versioni diverse, sempre più ricche di contrattempi avventurosi, e porterà alla rovinosa distruzione di Troia.
La storia del giudizio di Paride è brevemente accennata nell’Iliade (2), ed è raccontata, nell’antichità classica, da Ovidio nella XVI lirica delle Heroides (3), da Luciano nei Dialoghi degli Dei, da Igino nella XCII delle sue Fabulae. Ma questa storia continua ad essere raccontata ancora molto dopo. Nella seconda metà del XII secolo, il troviere Benoît de Sainte-Maure scrisse, nel dialetto della Turenna, il poema Roman de Troie , nel quale ripercorre la storia della città di Ilio, dall’impresa degli Argonauti, alla prima distruzione di Troia, fino al famoso assedio narrato nell’Iliade. E qui Paride stesso racconta che, in un pomeriggio assolato, in sogno gli è apparso Mercurio seguito dalle tre dee, con la mela d’oro da consegnare alla «plus bele».
Il mito relativo al giudizio di Paride (κρίσις τών θεών ossia il «confronto» o «giudizio tra le dee») era assai noto nell’Antichità greco-romana e la sua menzione nelle fonti letterarie superstiti è frequente. La ragione è chiara: tra le conseguenze di quell’episodio, attraverso il rapimento di Elena, spiccava la guerra di Troia, durante la quale le dee sconfitte avrebbero continuato a esercitare il proprio odio contro la città. Alla figura del giovane erano collegati numerosi episodi mitologici, che ne descrivevano la sorte sin dagli anni precedenti la nascita; tale abbondante materiale mitico è conservato in opere diverse, spesso in una rielaborazione poetica che vi apportò varianti più o meno lievi: «la letteratura classica […] è una letteratura che, quando si propone di narrare storie, non è capace di concepire questa operazione se non nella forma di chi racconta un mito già noto […] le trame del mito c’erano, in un certo senso già tutte. Quello che occorreva fare era tenerle vive, scriverle e raccontarle ancora» (1).
PARIDE: NASCITA CHE GIÀ PRELUDE LA DISTRUZIONE DI TROIA
Ecuba, moglie di Priamo re di Troia, mentre era incinta di Paride, sognò di generare una fiaccola ardente invece di un neonato. In quel fondamentale compendio mitografico che è l’opera intitolata Biblioteca, a lungo attribuita ad Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), ma probabilmente compilata da altri verso la fine del I sec. d.C., si dà ampio risalto a questo particolare (cfr. Bibl. III 12, 5), ma esso era menzionato già nelle Troiane di Euripide (vv. 919ss., probabilmente derivato dal poema ciclico Kypria) e sappiamo che a Roma fu ripreso da Ennio (Alexander vv. 35-37), Virgilio (Aen. VII 321; X 702) e Ovidio (Her. XVI 46). Il mitografo latino Igino (Fab. 91) aggiunge che nel parto ardente parevano brulicare delle serpi:
[sc. Hecuba] :
«vidit se facem ardentem parere ex qua serpentes plurimos exisse»
Traduzione:
«Ecuba vide che partoriva una fiaccola ardente da cui uscivano numerosissime serpi».
Nel sogno di Ecuba, il fuoco da lei dato alla luce, estendendosi agli edifici, incendiava l’intera città di Troia. Che una visione profetica si accompagnasse al parto è una costante della tradizione; essa compare ancora, significativamente, in modo ampio, in una delle riscritture più tarde di quel mito: l’opera comunemente indicata come la Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese, un testo che si finge essere la traduzione latina di un originale greco antichissimo, ma che è in realtà una creazione tardo-antica:
[Dict. Cret. III 26]:
«Namque Hecubam foetu eo gravidam facem per quietem edidisse visam, cuius ignibus conflagravisse Idam ac mox continuante flamma deorum delubra concremari omnemque demum ad cineres conlapsam civitatem intactis inviolatisque Antenoris et Anchisae domibus».
Traduzione:
«E infatti a Ecuba, incinta di quel bambino, parve di aver dato alla luce, pur restando tranquilla, una fiaccola, le cui fiamme avevano incendiato il monte Ida; ben presto i templi degli dèi, per il perdurare del fuoco, venivano bruciati e l’intera città, infine, era ridotta in cenere, mentre erano rimaste intatte e senza danno le case di Antenore e Anchise».
La fiaccola viene qui collegata a quel monte Ida, su cui Paride avrebbe trascorso la giovinezza; il fuoco rade al suolo Troia ma non le case di Antenore e Anchise, cioè quelle dei due eroi destinati a scampare al disastro della città, riparando il primo a Padova, mentre il secondo, sopravvissuto all’incendio, morì di vecchiaia durante le peregrinazioni al seguito del figlio Enea, cui fu invece concesso di approdare sano e salvo sulle coste del Lazio.
Secondo la consuetudine degli antichi, dopo un simile sogno premonitore, Priamo interrogò subito un indovino, e precisamente il figlio Esaco, avuto prima di sposare Ecuba da Arispe figlia di Meropo. Esaco, illustrando la trasparente simbologia, consigliò ai genitori di disfarsi del fratellastro per non causare la rovina della patria. Non appena Paride nacque, Priamo lo fece allontanare da Troia: fece chiamare un bovaro di nome Agelao e gli consegnò il bambino, perché fosse abbandonato sul monte Ida. Euripide, per la verità, afferma che Cassandra insistette per uccidere il neonato (cfr. Eur. Androm. 297; 300) e tale sembra essere la versione conosciuta anche dal mitografo latino Igino che scrive [sc. Alexander] datur interficiendus [«Alessandro viene consegnato per essere ucciso», Hyg. Fab. 91).
Il Nome
Paride era anche conosciuto anche con l’appellativo di Alessandro. Ora, il greco Ἀλέξανδρος, di per sé, significa all’incirca «eroe difensore»; Apollodoro (III 12, 6) pensa a un soprannome guadagnato dal giovane quando, impegnato come custode di vacche, difese le proprie mandrie da alcuni razziatori. Igino sembra invece suggerire che Alessandro fosse il nome scelto da Priamo ed Ecuba cui, soltanto in un secondo momento, si sostituì l’appellativo di Paride. Se si considera che nell’Iliade di Omero, che contiene le attestazioni letterarie più antiche, il nome Alessandro (comunque adatto a un figlio di re) ricorre assai più frequentemente dell’altro, sarà forse possibile supporre che la versione conservata a noi da Igino rispecchi la variante originale.
BELLEZZA DI PARIDE
La caratteristica peculiare di Paride è la sua avvenenza: mentre cresceva sull’Ida Paride era divenuto bellissimo. Il dato si mantiene costante nel tempo e una significativa descrizione fisica si legge ancora nell’opera di Darete Frigio, ossia in quella singolare versione dei fatti relativi alla guerra di Troia risalente al tardo-antico, ma che pretende di derivare da un originale greco praticamente coevo al conflitto. Qui, tra l’altro, la responsabilità morale del conflitto spetta ai Greci, e non ai Troiani:
[Dar. Phryg. 12]:
«Dares Phrygius [...] ait [...] Alexandrum candidum longum fortem oculis pulcherrimis capillo molli et flavo ore venusto voce suavi velocem cupidum imperii».
Traduzione:
«Darete Frigio ... sostiene ... che Alessandro fosse bianco di incarnato, alto, coraggioso, con occhi bellissimi, chioma fluente e bionda, viso grazioso, voce soave, rapido, desideroso di potere».
GIUDIZIO DI PARIDE
Tutto ebbe inizio quando Peleo, re di Ftia in Tessaglia decise di sposare in seconde nozze la nereide Teti (da cui poi ebbe il figlio Achille). Il matrimonio, sontuoso, venne celebrato alla presenza di tutti gli Dei dell'Olimpo, con l'esclusione di Eris, dea della discordia.
Eris volle vendicarsi, ma non scelse una vendetta diretta. Si presentò infatti al banchetto e lasciò rotolare tra i presenti una delle mele d'oro del Giardino delle Esperidi, dichiarando che ne avrebbe fatto regalo alla Dea più bella presente alle nozze.
La mela, simbolo di seduzione e bellezza suprema venne contesa tra Era (moglie di Zeus e divinità legata alle messi e all'abbondanza), Atena (figlia di Zeus, dea delle arti, della sapienza e degli aspetti nobili legati alla guerra) ed Afrodite (dea dell'amore, della bellezza e della lussuria).
La lite tra le dee degenerò, ma Zeus si rifiutò di emettere un giudizio, lasciando il compito a Paride principe di Troia. Le dee, pur di ricevere la preziosa mela ed il significato a lei legato tentarono Paride in vari modi: Atena gli promise vittoria in tutte le guerre che avrebbe intrapreso; Era infiniti ed unici poteri; Afrodite l'amore di Elena, la donna più bella della terra. Chiamato quindi a giudicare quale tra Era, Atena e Afrodite fosse la dea più bella, Paride scelse la dea dell’amore e, con il verdetto pronunciato sul monte Ida, si inimicò per sempre la sposa di Zeus e Atena; cedette invece alle lusinghe di Afrodite che gli aveva concesso le grazie di Elena, figlia di Leda (o, secondo altre versioni, di Nemesi) e di Zeus il quale, per unirsi alla donna, si era trasformato in cigno: Elena era nata così da un uovo. Divenuta poi la donna più bella del mondo antico, sposò Menelao re di Sparta, scegliendolo tra numerosissimi pretendenti. L’adempimento della promessa di Afrodite a Paride, in seguito all'attribuzione della mela, assumeva dunque i caratteri di un adulterio. Il modo di portare con sé la donna, tuttavia, dovette essere individuato dal giovane affidandosi alla propria iniziativa: egli si ingegnò nella costruzione di una nave, realizzata per lui da un artigiano di nome Fereclo, e raggiunse Sparta, forse in compagnia di Enea, e qui andò ospite al palazzo reale. Riuscì quindi a sottrarre la moglie alla custodia di Menelao, approfittando dell’assenza dell’eroe, impegnato a Creta per partecipare ai funerali del nonno Catreo (Apollod. Bibl. Epit. 3). Lasciata Sparta, Paride si diresse quindi verso Troia e il viaggio di ritorno è narrato in innumerevoli versioni diverse, sempre più ricche di contrattempi avventurosi, e porterà alla rovinosa distruzione di Troia.
La storia del giudizio di Paride è brevemente accennata nell’Iliade (2), ed è raccontata, nell’antichità classica, da Ovidio nella XVI lirica delle Heroides (3), da Luciano nei Dialoghi degli Dei, da Igino nella XCII delle sue Fabulae. Ma questa storia continua ad essere raccontata ancora molto dopo. Nella seconda metà del XII secolo, il troviere Benoît de Sainte-Maure scrisse, nel dialetto della Turenna, il poema Roman de Troie , nel quale ripercorre la storia della città di Ilio, dall’impresa degli Argonauti, alla prima distruzione di Troia, fino al famoso assedio narrato nell’Iliade. E qui Paride stesso racconta che, in un pomeriggio assolato, in sogno gli è apparso Mercurio seguito dalle tre dee, con la mela d’oro da consegnare alla «plus bele».
Lez la fontaine ou rien n’abeivre,
Tres desoz l’ombre d’un geneivre,
M’estut dormir, nel poi muër:
Onques avant ne poi aler.
Sempres maneis en m’avison
Vi devant mei Mercurion:
Juno, Venus e Minerva,
Ces treis deuesses m’amena.
Treis feiz m’apela dreitement,
Puis dist: «Paris, a mei entent.
Cez deuesses vienent a tei
Por le jugement d’un otrei.
Une pome lor fu getee
D’or massice, tote letree:
Les letres diënt en Grezeis
Qu’a la plus bele d’eles treis
Sera la pome quitement
Entre eles en a grant content:
Chascune plus bele se fait,
Chascune est dreiz, ço dit, qu’el l’ait;
N’i a celi de sei ne die [...]
[Benoît de Sainte-Maure, Roman de Troie, Paris, Libraire De Firmin Didot & C., 1904, Vol. I]
1) M. Bettini, Le riscritture del mito in Lo spazio letterario di Roma antica I, Roma 19932, p. 16; p. 22.
Tres desoz l’ombre d’un geneivre,
M’estut dormir, nel poi muër:
Onques avant ne poi aler.
Sempres maneis en m’avison
Vi devant mei Mercurion:
Juno, Venus e Minerva,
Ces treis deuesses m’amena.
Treis feiz m’apela dreitement,
Puis dist: «Paris, a mei entent.
Cez deuesses vienent a tei
Por le jugement d’un otrei.
Une pome lor fu getee
D’or massice, tote letree:
Les letres diënt en Grezeis
Qu’a la plus bele d’eles treis
Sera la pome quitement
Entre eles en a grant content:
Chascune plus bele se fait,
Chascune est dreiz, ço dit, qu’el l’ait;
N’i a celi de sei ne die [...]
[Benoît de Sainte-Maure, Roman de Troie, Paris, Libraire De Firmin Didot & C., 1904, Vol. I]
1) M. Bettini, Le riscritture del mito in Lo spazio letterario di Roma antica I, Roma 19932, p. 16; p. 22.
2)
Omero: «οὐδέ ποθ᾽ Ἥρῃ οὐδὲ Ποσειδάων᾽ οὐδὲ γλαυκώπιδι κούρῃ, ἀλλ᾽ ἔχον ὥς σφιν πρῶτον ἀπήχθετο Ἴλιος ἱρὴ καὶ Πρίαμος καὶ λαὸς Ἀλεξάνδρου ἕνεκ᾽ ἄτης, ὃς νείκεσσε θεὰς ὅτε οἱ μέσσαυλον ἵκοντο, τὴν δ᾽ ᾔνησ᾽ ἥ οἱ πόρε μαχλοσύνην ἀλεγεινήν». [Iliade, XXIV, vv. 25-30] |
Traduzione: «Alto riposta nella mente sedea di queste Dive di Paride l'ingiuria, e la sprezzata lor beltade quel dì che a lui venute nel suo tugurio, ei preferì lor quella che di funesto amor contento il fece». [Vincenzo Monti, Iliade, XIV, vv.34-39] |
3)
Ovidio: ''Forma vigorque animi, quamvis de plebe videbar, indicium tectae nobilitatis erat. Est locus in mediis nemorosae vallibus Idae devius et piceis ilicibusque frequens, qui nec ovis placidae nec amantis saxa capellae nec patulo tardae carpitur ore bovis; hinc ego Dardaniae muros excelsaque tecta et freta prospiciens arbore nixus eram ecce, pedum pulsu visa est mihi terra moveri vera loquar veri vix habitura fidem constitit ante oculos actus velocibus alis Atlantis magni Pleionesque nepos fas vidisse fuit, fas sit mihi visa referre inque dei digitis aurea virga fuit. Tresque simul divae, Venus et cum Pallade Iuno, graminibus teneros inposuere pedes. Obstupui, gelidusque comas erexerat horror, cum mihi «Pone metum!» nuntius ales ait: «Arbiter es formae; certamina siste dearum, vincere quae forma digna sit una duas.» Neve recusarem, verbis Iovis imperat et se protinus aetheria tollit in astra via. Mens mea convaluit, subitoque audacia venit nec timui vultu quamque notare meo. Vincere erant omnes dignae iudexque querebar non omnes causam vincere posse suam. Sed tamen ex illis iam tunc magis una placebat, hanc esse ut scires, unde movetur amor. Tantaque vincendi cura est; ingentibus ardent iudicium donis sollicitare meum. Regna Iovis coniunx, virtutem filia iactat; ipse potens dubito fortis an esse velim. Dulce Venus risit; «Nec te, Pari, munera tangant utraque suspensi plena timoris,» ait; «Nos dabimus, quod ames, et pulchrae filia Ledae ibit in amplexus pulchrior illa tuos.» Dixit, et ex aequo donis formaque probata victorem caelo rettulit illa pedem''. [Ovidio, Heroides, XVI Paris Helenae, vv. 51-88] |
Traduzione: Plebeo mi si credeva, ma bellezza ed ardire una nobile origine erano pur la prova. C'è un luogo solitario tra le valli e i boschi dell'Ida, dove fitti sono i lecci e gli abeti, dove placidi agnelli non brucano, né capre amanti delle rupi o buoi dall'ampia bocca. Salito sopra un albero da quel luogo guardai gli alti tetti le mura di Dardano ed il mare. Ecco, mi parve scuotersi il suolo per un passo (quanto dirò è difficile a credersi ma vero) e spinto da veloci ali agli occhi mi apparve il nipote del grande Atlante e di Pleione e (che io possa dirlo come potei vederlo) il dio la verga d'oro reggeva tra le dita. E intanto le tre dee Venere con Giunone e Pallade posarono sull'erba i lievi piedi. Stupore ed un glaciale terrore la mia chioma irrigidí ma il nunzio alato «Non temere, - mi disse, - sarai arbitro della bellezza. Cessi la gara delle dee, e vinca la piú bella». Perché io non rifiuti dice: «Giove lo impone» e subito nell'etere verso gli astri si leva. Appena mi riebbi, divenni cosí audace che osai con il mio sguardo fissarle ad una ad una. Erano tutte degne di vincere ed io stesso, giudice, mi dolevo che ognuna non vincesse. Di loro tuttavia una piú mi piaceva; era, sappilo, quella che sa muovere amore e ardore di conquista. Piegare il mio giudizio con magnifici doni bramano le tre dee. La consorte di Giove vanta i regni, il valore la figlia, se accettare la gloria o la potenza esito. Dolcemente rise Venere: «Lascia, Paride, questi doni pericolosi e incerti. Ti indicherò chi amare, e avverrà che la figlia bellissima di Leda cada tra le tue braccia». Così mi disse e, prescelta per la bellezza e i doni vincitrice riprese il cammino del cielo. [Ovidio, Heroides, traduzione di Gabriella Leto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2007, XVI Paride a Elena, vv. 51-88.] |